La reggia del Sole si levava alta con le sue immense colonne, tutta scintillante d'oro e di rame dai bagliori di fiamma. Lucido avorio rivestiva il frontone. La porta a due battenti mandava sprazzi d'argento.
L'arte superava la materia. Su quella porta infatti Vulcano aveva cesellato le distese marine che ricingono la terraferma, e l'orbe terrestre e il cielo che lo sovrasta.
L'acqua ha dèi azzurri: Tritone che suona, il mutevole Proteo, Egeone che con le sue tante braccia preme enormi dorsi di balene, e Dòride con le sue figlie, di cui alcune si vedono nuotare, altre stan sedute su scogli ad asciugarsi i verdi capelli, qualcuna navigare in groppa a un pesce; non hanno tutte lo stesso viso, ma nemmeno diverso, come dev'essere trattandosi di sorelle. La terra porta uomini e città e boschi e animali e fiumi e ninfe con le altre divinità della campagna. Sopra, è raffigurato il cielo che brilla di luci: sei costellazioni sul battente destro e altrettante su quello sinistro.
Qui giunse, per una via in salita, il figlio di Clímene, e appena entrò nella dimora del discusso genitore, subito si recò al suo cospetto, fermandosi però a distanza: piú da vicino non ne sosteneva la vista. Il Sole sedeva, avvolto in un manto purpureo, su un trono scintillante di fulgidi smeraldi. A destra e a sinistra stavano il Giorno e il Mese e l'Anno, e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza l'una dall'altra; stava la Primavera incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda, che portava ghirlande di spighe, e stava l'Autunno imbrattato di uva calpestata, e l'Inverno ghiaccio, con i bianchi capelli irrigiditi.
Con i suoi occhi con cui scorge ogni cosa, il Sole, seduto al centro, vide il giovane intimorito da tutte quelle novità, e gli disse : "Come mai sei venuto? Che cosa cerchi su questa rocca, Fetonte, rampollo mio che mai rinnegherei? " Rispose Fetonte: " O luce comune del mondo immenso, Febo padre, se mi concedi di usare questa parola e se Clímene non dice il falso per nascondere una colpa, dammi una prova, o genitore, grazie alla quale ognuno sappia che sono davvero tuo figlio, e levami questo dubbio dal cuore! "
Allora il genitore si tolse i raggi che gli sfolgoravano tutt'intorno al capo, lo invitò ad avvicinarsi e, abbracciatolo, disse: "Non c'è ragione che io neghi che sei mio, e Clímene ti ha detto il vero sulla tua nascita. E per levarti ogni dubbio, chiedi quello che vuoi, e l'otterrai: io te lo concederò. Tu, palude su cui giurano gli dèi, sconosciuta ai nostri occhi, sii testimone di questa promessa! "
Aveva appena finito, che quello chiese il cocchio e il permesso di guidare per un giorno i cavalli dai piedi alati.
Si pentí il padre di avere giurato, e scuotendo tre e quattro volte il capo luminoso, esclamò: "Parole folli ti ho detto, se ora questo mi dici! Oh, si potesse non dare quel che si è giurato! Credimi, figlio, questa è l'unica cosa che vorrei rifiutarti. Dissuadere però è permesso. Pericoloso è quello che vuoi. Grande cosa chiedi, Fetonte, una cosa che non si confà né a queste tue forze né a questa tua età, cosí tenera. Vuole il destino che tu sia un mortale: non è da mortale ciò che desideri! Tu non sai, ma nemmeno un dio potrebbe ottenere quello a cui aspiri tu; che ognuno abbia le pretese che vuole, ma è certo che nessuno all'infuori di me sa stare sul cocchio fiammeggiante. Neppure il signore del vasto Olimpo, che scaglia furiosi fulmini con la terribile mano, saprebbe guidare questo cocchio. E che cosa abbiamo di piú grande di Giove? Ripida è all'inizio la via, tanto che a fatica vi s'inerpicano i cavalli, pur freschi al mattino; a metà è altissima nel cielo, e molte volte io stesso provo timore a guardare di lassú il mare e la terra, e il petto mi trepida di paura e sgomento; l'ultimo tratto è una china a strapiombo, che richiede mano ferma: allora, perfino Teti, che mi accoglie al termine nelle sue onde, teme sempre che io debba precipitare. Aggiungi che senza sosta il cielo gira vorticosamente trascinando le alte stelle e facendole turbinare. Io avanzo contro il turbine, senza lasciarmi travolgere da quella spinta a cui null'altro resiste, e corro in senso contrario al suo rapido giro. Immagina di avere il cocchio: che farai? riuscirai ad avanzare contro il roteare dei poli senza che la velocità del cielo ti porti via? Forse pensi che lí ci siano boschi sacri e città di dèi e templi ricchi di doni? Si passa attraverso insidie e figure di bestie feroci, e per quanto tu segua la via giusta senza sbagliare, pure dovrai avventurarti tra le corna del Toro rivolto contro di te, e attraverso l'arco dell'Arciere d'Emònia e le fauci del furioso Leone, e attraverso lo Scorpione che piega le chele crudeli con lungo giro e il Granchio che piega le sue chele da un'altra parte. E come farai a controllare i cavalli, focosi per quelle fiamme che hanno in petto e che soffiano fuori dalla bocca e dalle froge? A stento obbediscono a me, quando i loro animi indomiti si sono riscaldati, e il collo si ribella alle briglie. Stai dunque attento, figlio, perché non sia proprio io a farti un favore funesto, e finché siamo in tempo cambia la tua richiesta! Per credere di essere sangue del mio sangue tu vuoi, è vero, una prova sicura. La prova sicura è questo mio timore, il mio paterno sgomento dimostra che sono tuo padre. Guarda, guarda il mio volto, e potessi tu figgermi gli occhi nel petto e cogliere l'ansia paterna che ho dentro! Infine, guarda di quante cose è ricco il mondo intorno, e di tanti e cosí grandi beni del cielo e della terra e del mare, chiedi qual- cosa: nulla ti rifiuterò! Questo solo ti scongiuro di non doman- darmi, che veramente va chiamato una pena, non un onore: una pena, Fetonte, mi chiedi come favore. Perché mi getti le braccia al collo per blandìrmi, insensato? Non dubitare, avrai (l'abbiamo giurato sulle onde dello Stige) qualunque cosa desideri, ma esprimi un desiderio piú saggio".
Lo aveva ammonito. Ma il giovane non vuol sentire discorsi, e insiste nella sua idea e smania dalla voglia di guidare. E allora, dopo avere indugiato piú possibile, il genitore lo conduce all'alto cocchio, dono di Vulcano.
D'oro era l'asse, d'oro era la stanga, d'oro il cerchio delle ruote, d'argento la serie di raggi. Lungo i gioghi, topazi e gemme poste in fila rimandavano al Sole sfavillanti bagliori.
E mentre 1'audace Fetonte contemplava stupito queste cose e ne studiava i particolari, ecco che dall'oriente lucente l'Aurora puntuale spalancò i battenti purpurei e l'atrio pieno di rose. Fuggono le stelle, e Lucifero, alla retroguardia, lascia per ultimo il campo del cielo.
Non appena vide Lucifero scendere verso la terra e il mondo tingersi di rosso e la falce della luna sfocata quasi svanire, il Titano comandò alle Ore veloci di aggiogare i cavalli. Prontamente le dee eseguirono l'ordine, e dalle alte stalle condussero fuori i destrieri pasciuti di succo d'ambrosra, che sbuffavano fuoco, e misero loro i morsi tintinnanti. Allora il padre spalmò un sacro medicamento sul volto del figlio perché tollerasse le vampe voraci, gli pose sulla chioma i raggi, e di nuovo emettendo sospiri d'ansia dal petto, presagendo sventura, disse:
"Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre, evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie. Già šendono a correre di suo: il difficile è frenare la loro foga. E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del cielo. C'è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura, e resta compresa entro tre sole zone senza toccare né il polo australe, né l'Orsa dalla parte d'Aquilone. Passa di lí; vedrai chiaramente le tracce delle ruote. E perché il cielo e la terra ricevano pari e giusto calore, non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo. Spostandoti troppo verso l'alto, bruceresti le dimore celesti; verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo. E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il Serpente contorto, o non ti conduca- no troppo a sinistra, giú verso l'Altare. Tienti fra l'uno e l'altro. Per il resto mi aflìdo alla Fortuna, che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto sappia fare tu stesso. Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta segnata sulle coste di ponente. Non ci è permesso indugiare; tocca a noi: l'Aurora, scacciate le tenebre, risplende. Afferra le briglie, ma, se puoi cambiare parere, dei miei consigli e non del mio cocchio, finché sei in tempo e ancora sei qui su terreno solido e non ancora calchi, inesperto questo carro che purtroppo hai scelto. Lascia dare a me la luce terra, mentre tu guardi al sicuro. "
Balza Fetonte col suo giovane corpo sul cocchio volante, tutto impettito, felice di stringere finalmente in mano le briglie, e di lassú ringrazia l'afflitto genitore. Frattanto Piroente ed Eòo ed Etone, gli alati cavalli del Sole, e, quarto, Flegonte, riempiono l'aria di fiammeggianti nitriti e scalpitano percuotendo con gli zoccoli i cancelli. Non appena Teti, che non sa quale destino attende suo nipote, li apre, dischiudendo loro spazi del cielo immenso, si slanciano fuori e agitando le zampe per l'aria squarciano le cortine di nebbie, e sollevandosi sulle ali sorpassano gli Euri che nascono anch'essi da quella parte. Ma il peso è leggero, non è quello che conoscono i cavalli del Sole, il giogo non grava su di loro come di solito fa; e come senza opportuna zavorra le navi ricurve traballano e instabili perché troppo leggere sbandano per il mare, cosí il carro, privo del peso consueto, sobbalza per l'aria con grandi scosse e quasi sembra un carro vuoto. Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si scatenano, lasciano la pista usuale e smettono di correre in modo ordinato. Lui si spaventa, e non sa da che parte tirare le briglie che si è fatto affidare, non sa piú dov'è la strada, e anche se lo sapesse, non riuscirebbe a controllarli.
Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa, la quale cercò, invano, d'immergersi nel mare ad essa vietato; e il Serpente, che si trova vicino al polo glaciale e che prima era intorpidito dal freddo e non faceva paura a nessuno, si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista. Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote, benché fossi lento e impacciato dal carro tuo.
Quando poi l'infelice Fetonte si volse a guardare dall'alto del cielo la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidí, e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia, e in mezzo a tutta quella luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi. Già vorrebbe non aver mai toccato i cavalli del padre, già si pente di avere avuto la prova della sua origine e di avere prevalso insistendo; già preferirebbe che dicessero che suo padre è Mèrope, e intanto è trascinato via come una nave sbattuta da furioso Borea, che il pilota abbia rinunciato a dirigere rimettendosi agli dèi e alle preghiere. Che fare? Dietro le fpalle si è lasciato buona parte del cielo, ma davanti ce n'è di piú. Mentalmente misura i due tratti, e ora guarda dinanzi, verso ponente dove il destino gli nega di giungere, ora guarda indietro, verso levante. Non sapendo decidere, resta impietrito, non molla le redini né ha la forza di tirarle, e nemmeno conosce i nomi dei cavalli. Per giunta, sparse qua e là per il cielo screziato vede stranissime cose e, rabbrividendo, figure di animali mostruosi.
C'è un punto dove lo Scorpione incurva le sue pinze in due archi e dalla coda alle branche stende le sue membra per lo spazio di due costellazioni. Quando il fanciullo lo vede che tutto trasuda di nero veleno e minaccia di colpirlo con la punta ad uncino, smarrito e gelato dallo spavento lascia andare le briglie; e appena queste, allentandosi, sfiorano la groppa ai cavalli, i cavalli si mettono a correre a caso, e, non impedendoglielo nessuno, vanno per sconosciute regioni dell'aria e per dove li spinge la foga per lí si precipitano, cozzano contro le stelle infisse nella volta del cielo, trascinano il carro per luoghi sperduti. E ora si slanciano verso l'alto, ora si buttano a precipizio giù per cammini in declivio, riavvicinandosi alla terra. Con stupore la Luna vede i destrieri del fratello passare al di sotto dei suoi. E le nuvole ribollono e fumano. I punti piú alti della terra cominciano a prendere fuoco, il suolo perde gli umori, si secca e si fende, i pascoli si sbiancano, alle piante si bruciano le fronde, e la messe inaridita fa da esca al flagello che la divora.
Ma questo è niente. Ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni. Bruciano i boschi coi monti. Ardono l'Ato e il Tauro in Cilicia e lo Tmolo e l'Eta, e l'Ida che prima pullulava di sorgenti, prosciugato, e l'Elicona delle vergini Muse, e l'Emo su cui ancora non regnava Eagro. Un rogo immenso è l'Etna, aggiunto fuoco a fuoco; ardono il Parnaso dalle due cime e l'Erice e il Cinto e l'Otri, e il Ròdope finalmente sgombro di neve e il Mimante, e il Díndimo e il Mícale e il Citerone fatto per i sacri riti. Neppure la Scizìa si salva, malgrado il suo freddo: il Caucaso brucia, come l'Ossa e il Pindo e l'Olimpo piú grande di entrambi, e le Alpi sublimi e l'Appennino rannuvolato.
E cosí Fetonte vede la terra accesa da tutte le parti, e non resiste piú a tutto quel calore: respira folate infuocate che salgono su come da una profonda fornace, e si accorge che anche il suo cocchio si fa incandescente. Non riesce piú a sopportare le ceneri e i getti di faville, è avvolto completamente da un caldo fumo, e, immerso in quella caligine color di pece, non sa piú dove stia andando né dove sia, mentre i cavalli alati lo trascinano dove gli pare.
Dicono che fu allora che il popolo degli Etíopi, per l'affluire del sangue a fior di pelle, divenne di colore nero; fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto; allora le ninfe con i capelli scompigliati piansero la scomparsa delle fonti e dei laghi: la Beozia non trova piú la fonte Dirce, Argo la fonte Amimone, Efire le acque della fonte Pirene. E neppure i fiumi che hanno avuto in sorte sponde distanti l'una dall'altra si salvano: il Tànai fuma perfino al centro della sua corrente, e cosí il vecchio Peneo, e il Caico nel regno di Teutrante, e il veloce Ismeno e l'Erimanto nel regno di Fegeo, e lo Xanto destinato ad ardere una seconda volta e il biondo Licorma, e il Meandro che si diverte a far fare curve alle sue onde, e il Mela della Migdonia e l'Eurota di Tènaro. Arde anche l'Eufrate babilonese, arde l'Oronte, e il Termodonte rapido e il Gange e il Fasi e l'Istro. Ribolle l'Alfeo, bruciano le rive dello Sperchio, e l'oro che il Tago trasporta con la sua corrente scorre fuso dalle fiamme, mentre gli uccelli acquatici che affollano chiassosi le sponde della Meònia, soffocano in mezzo al Caistro. Il Nilo fugge atterrito ai margini del mondo e nasconde il capo, che non si é piu riusciti a trovare; le sue sette foci restano asciutte, polverose: sette letti senz'acqua. Uguale destino prosciuga l'Ebro e lo Strímone, nella regione dell'Ismaro, e i liumi dell'Occidente: il Reno, il Rodano e il Po, e il Tevere a cui è riservato il dominio del mondo.
Dappertutto il suolo si spacca e attraverso gli squarci la luce penerra nel Tartaro atterrendo il re degli inferi e la sua consorte. Il mare si contrae, e dove poco fa c'erano distese d'acqua, ora ci sono distese d'arida sabbia; e i monti coperti prima da alto mare spuntano fuori qua e là venendo ad accrescere il numero delle Cicladi. I pesci si ritirano sul fondo e i ricurvi delfini non osano più balzare fuori dall'acqua come è loro abitudine. Corpacci di foche tramortite galleggiano rovesciari sul dorso. Perino Nereo e Dòride con le loro figlie, si racconta, cercarono rifugio dentro grotte, ma anche queste erano calde. Tre volte Nettuno si azzardò a tirar fuori dalle onde la faccia, truce, e le braccia; tre volte non riuscì a sopportare l'aria infuocata.
Alla fine la madre Terra, attorno alla quale si erano strette tutte le acque, sia le acque del mare, sia le fonti consunte che da ogni parte cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure, levò a fatica il volto, arida, fino al collo, si portò una mano alla fronte, e con un gran sussulto, che fece tremare ogni cosa, si assestò un po' più in basso di quel che suole, e disse con voce infiochita: "Se così è deciso e se l'ho meritato, che aspettano i tuoi fulmini, o re degli dei? Se di fuoco devo perire, concedirni di perire colpita dal fuoco tuo, e la rovina sarà piú sopportabile. Posso appena aprire la bocca per dire quesre parole - (una vampata l'aveva quasi soffocata) -. Ecco, guarda le mie chiome strinate, e quanta cenere negli occhi, quanta sulla faccia! Così ricambi, così ricompensi la mia fertilità e i miei servig, io che sopporto i tagli dell'aratro adunco e dei rastrelli e mi affatico tutto l'anno, io che fornisco foglie per il bestiame e messi, alimenti pacifici, per il genere umano, e anche incenso per voi, sì, per voi. Ma ammesso che io meriti questa fine, che male hanno fatto le acque, che male ha fatto tuo fratello Nettuno? Perche il mare che gli è toccato in sorte gli cala e si discosta ancor di piú dal cielo? E se non ti commuovi né per tuo fratello né per me, abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guàrdati di qua e di là: i poli fumano tutti e due! E se il fuoco li rovinerà, la vostra reggia crollerà! Guarda, perfino Atlante non ce la fa piú a sorreggcre sulle spalle l'asse del cielo, ormai incandescente. Se finisce il mare, se finisce la terra e la reggia del cielo, torniamo alla confusione dell'antico Caos. Salva dalle fiamme quello che resta, se ancora resta qualcosa. Pensa all'universo! "
Qui la Terra tacque - non avrebbe del resto piú potuto resistere ai vapori e dire altro -, e ritirò il volto dentro se stessa, in recessi piú vicini al regno delle ombre.
Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dèi (compreso il Sole che aveva prestato il carro) che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva, salí in cima alla rocca da cui suole far calare sulla terra i banchi di nubi, da cui fa rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori. Ma in quelloccasione non ebbe né nubi da far calare sulla terra, né pioggla da far cadere dal cielo. Tuonò, e librato un fulmine all'altezza dell'orecchio destro, lo lanciò contro il cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita e arrestando l'incendio con una spietata fiammata. Atterriti, i cavalli s'impennano e con uno strappo liberano il collo dal giogo, spezzano i finimenti e fuggono. Qui cadono i morsi, lí l'asse divelto dalla stanga, di qua i raggi delle rupte, e per gran tratto si disperdono i resti del cocchio fracassato
Fetonte, con la fiamma che gli divora i capelli rosseggìanti, precipita girando su se stesso e lascia per l'aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giú dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo, nel grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. Le Nàiadi d'Occidente seppelliscono il corpo incenerito dalla folgore a tre punte, e sulla lapide scrivono anche dei versi:
Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre;
Non seppe guidarlo e cadde, ma fu impresa grandiosa.
Il padre invece, affranto, aveva nascosto il proprio volto contratto dal dolore, e, se dobbiamo crederci, dicono che tutto un giorno trascorse senza sole. Luce facevano i bagliori degli incendi: a qualcosa almeno serví quella catastrofe. Quanto a Clímene, dopo che ebbe detto tutte le cose da dire per una disgrazia cosí grande, folle nel suo lutto, stracciatesi le vesti, andò in girp per tutto il mondo alla ricerca, dapprima, del corpo inanimato, poi delle ossa, e alla fine ritrovò le ossa, sepolte su una riva straniera, e si accasciò sul tumulo e inondò di lacrime il nome che lesse sul marmo, scaldandolo col seno scoperto.
E anche le Elíadi erano in lutto, e dettero un tributo di lacrime (inutile dono per chi è morto), e battendosi il petto con le mani, prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocarono Fetonte che non poteva udire quei tristi lamenti.
Quattro volte la luna era tornata piena riunendo le punte della sua falce, e come di consueto (la ripetizione ne aveva fatto una consuetudine) esse si stavano abbandonando a scene di cordoglio. Quand'ecco che Faetusa, la sorella piú grande, voleva prostrarsi a terra, ma si dolse che i piedi le si erano irrigiditi; la candida Lampezie cercò di andare verso di lei, ma fu trattenuta da un'improvvisa radice; una terza, che intendeva stracciarsi con le mani i capelli, strappò delle frasche. Questa si lamenta che un ceppo le serri le gambe, quella che le braccia diventino lunghi rami. E mentre si meravigliano, una corteccia circonda l'inguine e gradatamente fascia il ventre, poi il petto, poi le spalle, poi le mani, e rimangono scoperte soltanto le bocche, che invocano la madre.
E che altro può fare la madre, se non correre di qua e di là, in tumulto e smarrita, dispensando baci finché ancora è possibile? Non basta: tenta anche di strappar fuori i corpi dai tronchi, e con le mani spezza rami teneri. Ma da questi stillano gocce sanguigne, come da ferite.
"No, ti prego, madre! - gridano quelle per la sofferenza. -
No, ti prego! Nell'albero si strazia il nostro corpo. Addio, è finita..." La corteccia si chiude sulle ultime parole. Ne colano lacrime;
è ambra che stilla dai nuovi rami e s'indurisce al sole e
finisce nel fiume lucente, il quale la trasporta via; se ne adorneranno le donne latine.